Thursday, January 31, 2019

2019.01.63

Dino De Sanctis, Il canto e la tela. Le voci di Elena in Omero. Biblioteca di studi antichi, 98. Pisa; Roma: Fabrizio Serra Editore, 2018. Pp. 307. ISBN 9788833151038. €95,00 (pb).

Reviewed by Roberta Ioli, University of Bologna; University of Rome Tor Vergata (roberta1011@libero.it)

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Il libro di Dino De Sanctis è un'ampia e accurata ricognizione della figura di Elena nei poemi omerici attraverso un'ottica particolare: quella della voce. Elena è sempre stata oggetto di attenzione nella storia degli studi: se ne è indagata l'origine nel mito e nella religione, la caratterizzazione omerica, l'evoluzione in ambito tragico, soprattutto a proposito del tema della colpa e della responsabilità nella guerra di Troia. Anche la connessione tra Elena e la pratica della tessitura non è nuova ma riceve, in De Sanctis, un rilievo speciale, attorno al quale viene costruita l'intera trama del libro. Inoltre la modernità di questa figura consiste, per l'Autore, proprio nei contorni indefiniti, talvolta ossimorici, che caratterizzano l'Elena omerica, sempre oscillante tra colpa e innocenza. La questione della responsabilità personale, insieme al ruolo dei logoi persuasivi nella determinazione della sua scelta, sarà poi tema ampiamente discusso nella produzione letteraria seguente, sia sofistica sia tragica, di cui però De Sanctis non si occupa.

Due sono le tesi principali che attraversano il libro: la prima è che, pur nelle differenze tra i due poemi, l'Elena omerica mostra una continuità tra Iliade e Odissea intorno al tema del pentimento: la regina di Sparta è sinceramente addolorata per le conseguenze nefaste del suo gesto, e nel movimento che accompagna la conquista di uno spazio pubblico (dal palazzo di Paride in Iliade III fino al ritorno alla reggia di Sparta in Odissea IV) si mostra profondamente autocritica e consapevole delle proprie responsabilità. Pertanto, le differenze riscontrabili tra i due poemi rispondono prevalentemente a un mutato contesto narrativo e riflettono una dicotomia, nella caratterizzazione della figura di Elena, più apparente che reale.

Il secondo tema sviluppato da De Sanctis è il legame di Elena con la poesia e il canto inteso come memoria. Se metafora della poesia è la tessitura (con tutto il carico simbolico che questa pratica comporta per il mondo femminile),1 tradizionalmente riconosciuta è anche la funzione metaletteraria della tela di Elena in Iliade III, dove, secondo la felice analisi di Ann Bergren, Elena diventa oggetto passivo della guerra e insieme artefice del suo emblema.2 L'assimilazione o meglio, per De Sanctis, la convergenza tra la voce di Elena e quella dell'aedo si snoda attraverso cinque capitoli che seguono l'articolazione stessa della voce: nel primo ("La tela di Elena"), protagonista è la tela che Elena sta tessendo nella dimora di Paride e in cui prendono forma le vicende della lunga guerra e le sue tante sofferenze. Nel secondo e terzo capitolo (rispettivamente "Elena sulle mura di Troia" e "La teichoscopia di Elena") la moglie di Paride, interpellata con affettuosa sollecitudine da Priamo, modula la propria voce in uno spazio pubblico, non più nel chiuso del megaron e nel silenzio solitario della tessitura. Nel quarto capitolo ("Elena ΑΟΙΔΙΜΟΣ: teoria e prassi del canto") Elena rappresenta, insieme a Ecuba e ad Andromaca, la voce femminile che in Iliade XXIV modula il goos, il compianto funebre in onore di Ettore, mentre nel quinto capitolo ("Alla corte di Sparta: Elena e il potere della voce") domina il racconto che Elena, in Odissea IV, offrirà a Telemaco, giunto alla reggia di Sparta per ottenere notizie del padre.

La tela di Elena può essere interpretata, per De Sanctis, come un ideale proemio della teichoscopia: in essa sarebbe cioè ricamata e, dunque, narrata la premessa del conflitto a cui Elena stessa poi assisterà dall'alto delle mura, con un'accurata selezione delle imprese che gli eroi compirono per lei o a causa sua (i polloi aethloi di Il. III 126 richiamerebbero cioè le portentose imprese di Greci e Troiani, quei theskela erga che Iride, in veste di Laodice, invita Elena ad osservare dalle mura in Il. III 130). Inoltre, nell'incontro con Ettore in Iliade VI, in una scena privata in cui si intrecciano i destini dei due popoli, Elena indaga il tema del canto come se lei stessa fosse chiamata a rivelarne il significato più profondo. Pronta ad un dialogo intimo con il cognato, il senso di colpa non la abbandona, mentre le parole di Ettore restituiscono la complessa relazione tra vicende umane e volontà imperscrutabile degli dei, i cui effetti sono destinati a creare la materia di un canto futuro. Se in Il. VI Elena è figura ancora irrisolta tra innocenza e colpa, in Iliade XXIV dà voce piena al canto epico, il cui tema è sì il dolore legato alla guerra, ma con una funzione eternatrice: nel compianto recitato per il cognato, Elena sembra infatti far confluire la vicenda di Ettore nell'infelice condizione di Troia, passando dal tono intimo e personale al rispecchiamento universale del dolore. Attraverso Elena e il suo legame con la tecnica e le scelte del cantore si crea dunque un preciso raccordo tra il mito iliadico e il ritorno di Elena nell'Odissea. D'altra parte, la visione corale della guerra sviluppata nell'Iliade cede la scena al racconto monografico dell'Odissea, in cui il fuoco della narrazione sono le imprese di Odisseo, pur sempre condizionate dalle responsabilità della narratrice.

Il pharmakon che in Od. IV 220 Elena offre ai suoi ospiti, a lenimento della sofferenza, è certamente un'ulteriore efficace metafora del potere della poesia, che allevia temporaneamente l'urgenza delle pene: già Plutarco (Quaest. Conv. 614b) aveva interpretato in maniera allegorica i pharmaka egizi, ammalianti come logoi che producono oblio. Mentre però De Sanctis (p. 213) propone un'assimilazione totale tra il potere delle Sirene e quello delle Muse, credo che le Sirene vadano piuttosto riconosciute come anti-Muse perché, per sua natura specifica, la poesia che esse rappresentano fornisce una sospensione solo momentanea del dolore. L'abisso spalancato dalla voce delle Sirene è invece quello di una definitiva perdita di consapevolezza e memoria della propria identità. Analogamente, pur essendo un'ipotesi suggestiva, non è necessario ricorrere all'Elena di Odissea IV come modello per le Muse esiodee (cfr. Th. 55): in altri casi il mythos narrato kata kosmon o kata moiran, cioè secondo un principio di ordine e armonia, viene assimilato, seppur indirettamente, al canto dell'aedo che accarezza l'uditorio con il fascino delle sue parole e induce a dimenticare lo scorrere del tempo (penso soprattutto ai racconti di Odisseo nell'incontro con Eumeo, con Eolo e con Alcinoo).

Un'altra questione su cui bisognerebbe soffermarsi riguarda la relazione tra il canto e la verità: De Sanctis considera la voce di Elena una "autorevole garanzia della verità" (p. 245) a sostegno del cantore. Grazie a Elena, cioè, Omero sembrerebbe superare i non pochi limiti dai quali si sente condizionato nell'impresa del racconto. Tuttavia, Elena stessa è figura della poesia, in quanto dà voce non alla presunta onniscienza del poeta, bensì alla sua finitezza rispetto alle Muse che tutto sanno. L'assimilazione del mythos di Elena al canto di un aedo è molto precisa nel ritratto omerico di Od. IV 235 ss.: il suo logos presenta infatti un proemio, cioè un esordio articolato in un elogio rivolto a Zeus, a cui segue la aretalogia del dio; la terpsis, prerogativa del canto aedico, è presentata come piacere procurato dall'ascolto e, a mio avviso, da porre in relazione con quella caratteristica del canto che lo stesso Menelao le riconosce, cioè la narrazione kata moiran (IV 266). Inoltre, come il poeta dell'epos, Elena pronuncia una decisa recusatio (Od. IV 240-241): nell'impossibilità di un'enumerazione esaustiva, si astiene dal narrare tutti i fatti riguardanti Odisseo e opera una selezione guidata dalla memoria e rispondente, probabilmente, anche alla natura dei suoi interlocutori. L'espressione a cui Elena ricorre ("non tutto, certo, potrò ricordare e ridire") è simile a quella con cui viene introdotto il "Catalogo delle Navi": anzi, come sottolinea De Sanctis, non sarà certamente casuale che la prima autoriflessione formulata da un poeta e contenuta in Il. II 484-492 sia proprio la dichiarazione di un limite e di un'impossibilità, un dire per negazione o per sottrazione.

Essenziale è infine il tema dell'eikos, concetto certamente centrale nella sua relazione con la poesia e che avrebbe meritato una più estesa trattazione.3 Ta eoikota (Od. IV 239) sono le parole appropriate al destinatario e, possiamo aggiungere, al contesto, ma anche ciò che è verosimile in rapporto al tema trattato. Nella delineazione di Elena come figura aedica, credo che un segnale della relazione tra eikos e voce vada riscontrato anche nelle parole di Menelao che, a proposito dell'inganno di Elena, la descrive come capace di "rendere simile [iskous'] la propria voce" a quella delle mogli dei Greci nascosti nel ventre del cavallo (Od. IV 279). Se l'episodio viene tradizionalmente interpretato come una prodigiosa imitazione di voci, capace di risvegliare nei guerrieri il desiderio di uscire allo scoperto, si può invece forse suggerire che Omero stia descrivendo non tanto un'oggettiva qualità mimetica della voce (con numerose questioni che resterebbero irrisolte), quanto piuttosto il suo effetto sull'uditorio, insieme ammaliato e confuso dalla straordinaria armonia di quella phonē. Il risultato è analogo a quello che il coro delle Deliadi sortisce sul pubblico nell'Inno ad Apollo, dove il canto è descritto attraverso il verbo synarariskein (v. 164, stessa radice di harmonia). La voce di Elena è unica, ma al suo interno sembra contenere tutte le voci: certamente, come conclude De Sanctis, il potere della voce si somma in modo armonioso al potere dello sguardo, confermando la bellezza vertiginosa e l'attrazione pressoché invincibile esercitata da Elena.

Pochi sono i refusi, che non inficiano l'intelligibilità del testo: a p. 25 nota 2 si trova "sfuggire dalle azioni" invece che "sfuggire alle azioni"; a p. 53 in nota si legge "volore" invece di "volere"; a p. 93 in nota si dice che nell'Encomio di Elena di Gorgia i theōn keleusmata, insieme a Tychē e Necessità, sono la seconda causa analizzata dal sofista, mentre si tratta della prima aitia; a p. 111 in nota leggiamo "Sprta" invece di "Sparta"; a p. 206 "siginificato" invece di "significato"; a p. 240 "a partire dell'Iliade" va corretto in "a partire dall'Iliade". Talvolta le note sono forse eccessivamente ricche di dettagli eruditi che rischiano di appesantire la lettura: basti come esempio la nota di p. 237, in cui i riferimenti al primo Mimiambo di Eroda e alla figura di Metriche non sembrano pertinenti al tema affrontato, se non come evoluzione letteraria di un topos (ma, in questo caso, si potrebbero o dovrebbero citare molti altri esempi).

Il libro tratta in modo articolato e coerente un tema interessante, al crocevia tra filologia, storia della letteratura e studi omerici. Sono inoltre strumenti preziosi, a completamento del volume, la ricchissima e aggiornata bibliografia di quasi cinquanta pagine, e un Indice dei passi citati.



Notes:


1.   In proposito cfr. Andò V., L'ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica, Carocci, Roma 2005.
2.   Bergren, Ann L.T., Weaving Truth: Essays on Language and the Female in Early Greek Thought, Center for Hellenic Studies, Washington 2008. Ma si vedano anche Ford A., Homer: The Poetry of the Past, Cornell University Press, Ithaca 1992; Segal C., Singers, Heroes and Gods in the Odyssey, Cornell University Press, Ithaca 1994; Roisman H.M., 'Helen in the Iliad: causa belli and Victim of War: from Silent Weaver to Public Speaker', American Journal of Philology 127, 2006, pp. 1-36; Brillante C., 'La voce che affascina: Elena e Cleopatra', Materiali e Discussioni per l'Analisi dei Testi Classici 59, 2009, pp. 109-139.
3.   Cfr. Turrini G., 'Contributo all'analisi del termine eikos, I: L'età arcaica', Acme 30, 1977, pp. 541-558; Goldhill S., The Poet's Voice: Essays on Poetics and Greek Literature, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 62 ss.; Hoffmann D.C., 'Concerning eikos: social expectation and verisimilitude in early Attic rhetoric', in Rhetorica 26, n. 1, 2008, pp. 1-29; Ioli R., Il felice inganno. Poesia, finzione e verità nel mondo antico, Mimesis, Milano 2018, pp. 81-94.

(read complete article)

2019.01.62

Thomas L. Pangle, The Socratic Way of Life: Xenophon's 'Memorabilia'. Chicago: University of Chicago Press, 2018. Pp. xi, 288. ISBN 9780226516899. $35.00.

Reviewed by Yun Lee Too (yunleetoo@yahoo.com)

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Pangle's book on Xenophon is of some interest as a prime example of the scholarship undertaken by followers of Leo Strauss with its techniques, particularly paraphrase, on obvious display. Paraphrase in the hands of a Straussian is a non-threatening manner of leading the reader to a reading of the ancient text that is skewed towards Strauss' ideology.

So I begin in imitation of Strauss by offering a paraphrase of a paraphrase. Pangle believes that the philosophical life—as best exemplified by Socrates—best enriches life by enabling self-government. In his Introduction, Pangle deifies Socrates, his hero, as the individual who resists society and helps the young people of his time question 'foundational civic opinions' (p. 4) and the world around them. Socrates runs afoul of the authorities and Pangle seeks to defend him through Xenophon's defence of the philosopher in the Memorabilia. The author even cites Nietzsche's suggestion that people will prefer the Memorabilia over the Bible as a guide to morals and reason. (p. 6).

The book is divided into two sections, part 1 concerning the impiety charge and the considerably longer part 2 concerning Socrates' help to other people. Pangle follows the order of the text of the Memorabilia quite carefully. In Chapter 1, Pangle insists, with Xenophon, that Socrates was not guilty of impiety or disbelief towards the gods. Socrates' worship, the daimonion, and his teaching all go to prove this. Chapter 2 addresses the accusation that Socrates corrupted the young. Pangle deals with the philosopher's association with two notorious young men, Critias and Alcibiades. The fact is that Socrates taught everyone who wanted to be taught, and they left him as soon as they got what they wanted (p. 27). Socrates is fully absolved as Critias came to hate the former (p. 31), while it is clear that Alcibiades imitated the philosopher simply to get ahead (p. 33). As Pangle notes, Critias and Alcibiades are contrasted with seven other students who went on to become useful to their communities (cf. 1.2.48 and p. 37).

Part 2 of the book indicates that Socrates followed the teaching of the Delphic oracle (p. 45). Chapter 3 opens with the observation that Socrates indeed prayed to the gods (pp. 45-7). This was the basis of his moderation and the self-mastery, which Pangle celebrates. He notes Socrates's urging the notoriously areligious Aristodemus to try worshipping the gods as a further indication of the philosopher's piety (pp. 50-5). Pangle continues that it is Socrates' self-mastery (engkrateia), the foundation for virtue, which enables him to help others (p. 55). This self-mastery takes the form of needing nothing for oneself (p. 59). Self-mastery or –discipline, which one acquires through education, is, according to Pangle, a sine qua non of one who aspires to rule well (p. 65). Furthermore, one must seek an active political life so as to benefit family, friends and fatherland. Pangle concludes this chapter by considering the Socratic summons to virtue, which he makes through a retelling of the choice of Heracles.

Chapter Four address Socrates' benefits to family and friends. Pangle's Socrates highlights philia as self-sacrificial and as deserving reciprocity. Familial philia has priority but extra-familial friendship, as in the case of the philosopher and Xenophon, can lead to a greater good, in this case the study of old books (p. 92). Pangle goes on to narrate four episodes of gentlemanly friendship, helping Aristarchus out of dire poverty by advising him to turn his household into a factory of sorts (2.7.4- 5), Eutheros to find a more ideal boss (2.8), Crito to escape sycophancy (2.9) and Hermogenes, who seeks the company of Socrates in order to become a gentleman, to return acts of charity (2.10).

Chapter Five considers how Socrates benefits those who aspire to the kalon. He considers what it means for someone to be trained in generalship, namely that it involves moral and practical skills (cf. p. 114), although Pangle, following Machiavelli (p. 116), praises above all the education that Cyrus receives in the Cyropaedia. There is attention given to various issues of leadership, e.g. on what the good leader needs to know, on the noble and the good. Pangle also concerns himself with what he regards as the comic depiction of Socrates as a courtesan: the philosopher, who entices with his wisdom, resembles Theodote, who draws men to her with her beauty. The author concludes his chapter with the observation that Socratic austerity as regards food, for instance, is one of way in which he promotes 'self-mastery'.

The final section of the book concerns Socrates as the beneficial teacher. This is Xenophon's ultimate defence of the philosopher against the charges brought by his accusers. Socrates taught three types of individuals with problems: first, those who though they were naturally good and despised learning; second, those who prided themselves on their wealth and disregarded education; and lastly, those who thought they had had the best education. Pangle focuses, as Xenophon did, on Socrates' seduction of Euthydemus, a youth who collected many books but was not wise. The topic discussed between the philosopher and the youth is justice, and Euthydemus is shown to be roundly refuted by Socrates on his own views of the virtue. The philosopher's views on justice are shown to originate with the oracle at Delphi, implicitly proving him to be a pious individual (pp. 176-7). And Pangle shows that Socrates teaches Euthydemus that the gods have human interests at heart so that the latter vows to be pious (cf. p. 188).

Pangle concludes his study by returning to 'self-mastery', which he claims that Socrates teaches as being the foundation of virtue (cf. p. 197). It appears that self-mastery makes men the best leaders and those who are most dialectical (p. 200). Furthermore, Pangle notes that Socrates dealt with his interlocutors in two distinct ways: to those who challenged him, he answered with questions that would lead to the truth, and to those who did not, such as Euthydemus, he did not deal with the premises of the truth but approached matters much more gently (pp. 206-7).

The conclusion of the study is an affirmation of Socrates' piety, for it makes the point that the philosopher chose death over prolonged life due to the daimonion. The philosopher has lived a good life and helped others to live better lives. So for Pangle the trial and death of Socrates are gloriously transfigured for posterity.

Paraphrase is perhaps a mode of mimicry, but I also think of it as a voiceover. The prior text is there; however, the text that is overlaid in the voice of the Straussian attempts to take precedence, while acknowledging the prior text, upon which it rests its authority. Paraphrase is a means of arrogating the originality and power of mostly classical works and authors to a somewhat alien and anachronistic political mode of thinking.

Now I will read esoterically, that is between the ostensible lines of the work, to demonstrate how the study seeks to put forth Straussian ideology. It is necessary to provide an ideological framework for this book. As its author Thomas Pangle is a loyal Straussian, the indications are that the book is heavily skewed towards this school of thought. Certainly, it is published by the University of Chicago, an institution where Leo Strauss made his home as a professor of political science as the Robert Maynard Hutchins Distinguished Service Professor, and once upon a time, a breeding ground of Straussianism. Pangle was, moreover, a PhD student at the University of Chicago where Strauss had taught; furthermore, he was a pupil of Allan Bloom, who studied directly under Strauss. Pangle thus has a very strong Straussian pedigree, and he reveals his proclivities on p. 40 when he observes that Strauss 'sets us on the path to a further deciphering of the puzzle of Xenophon's design'.

Straussians do not appear initially so sinister or ideologically interested because they tend to paraphrase extensively the works they are presenting to the reader. And so, for some 214 pages, Pangle retells in his own words, rather than analyses, the Memorabilia. In his now renowned article, 'Sphinx without a Secret', Myles Burnyeat observes that Straussians paraphrase in tedious detail and remain silent about points that are unclear in the text. They then nudge the reader gently to a meaning of the text that is different from what the ancient author intended.1 Indeed, Pangle nudges us towards his doctrine by selectively returning to certain themes in the work and by highlighting specific terms that those in the know will value as speaking to an ideal.

A recurrent phrase in the book is 'self-mastery' (Pangle's translation of engkrateia), a notion derived from Nietzsche, which is a way of life that helps the weak to achieve strength and presumably, the strong to become stronger2: Socrates teaches control over bodily appetites as the foundation of rule. For Pangle, this seems to be a rather solipsistic pursuit, focussed on the management of the self alone, perhaps like a programme of self-help or self-improvement. As Henry Jaffa, the 'father' of the West Coast Straussians, states, Strauss believed in prudence, a combination of moral and intellectual rule, as being necessary for statesmanship.3 Hence, for the Straussian, self-mastery is what makes the ruler, and the figure of the ruler is to be understood as a timeless ideal.

This is how the method of Strauss draws material from antiquity into the present sphere. In my view, however, this topic is not particularly highlighted by Socrates or his author, Xenophon, and particularly, not as such a self-absorbed concern where the individual is concerned. Throughout the Memorabilia, Xenophon is concerned with man as a social creature. He is always oriented towards others, whether the gods in his worship of them or other people in his treatment of them. For Socrates this means educating, rather than corrupting, the youth so that they in turn are good for the civic community, being good to one's friends (e.g. 2.2.5), and helping out the city as a whole (1.6.9).

Furthermore, the ideal ruler is a gentleman. That this is the case for Pangle becomes apparent on page 208, where he observes that Socrates' students were gentlemen who nonetheless needed to be turned towards what was fitting for them to learn in order to be leaders and away from the study of geometry and astronomy. It is Straussian ideology that an ancient author writes both exoterically for the masses. who lack true understanding, and esoterically for the select few, who have studied the qualities that enable them to rule. Those who understand the teaching of the ancients, in this case Socrates, as communicated by Xenophon, are able to read esoterically.

This was not an easy book to review by any means but if you wish to be indoctrinated into a neo-conservative ideology this will be right up your alley. I suggest that it leaves much to be desired where careful and accurate analysis of the Memorabilia is concerned.



Notes:


1.   Burnyeat, 'Sphinx without a Secret' in Explorations in Ancient and Modern Philosophy (Cambridge: 2012), p. 301.
2.   Cf. C. Baldwin, 'Thinking Nietzsche Through and Strauss's Recovery of Classical Political Philosophy', Revue Philosophique 19 (2011), p. 145.
3.   Jaffa, 'The Legacy of Leo Strauss: A Review of Studies in Platonic Political Philosophy, by Leo Strauss,' Claremont Review of Books 3.3 (1984).

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2019.01.61

Nicola Nina Schmid-Dümmler, Achilleus Tatios, Leukippe und Kleitophon: Rhetorik im Dienst der Verführung. Bochumer Altertumswissenschaftliches Colloquium 101. Trier: WVT Wissenschaftlicher Verlag Trier, 2018. Pp. 454. ISBN 9783868217476. €49,50 (pb).

Reviewed by Maria Fernanda Ferrini, Università di Macerata (maria.ferrini@unimc.it)

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[The Table of Contents is listed below.]

L'arte del narrare e la retorica come technē della comunicazione efficace e persuasiva costituiscono il tema centrale del dettagliato ed esaustivo studio di Nicola Nina Schmid-Dümmler. Esso è diviso in tre ampie sezioni principali e in numerose sottosezioni. Nella prima parte (pp. 11-47), l'Autrice presenta i punti salienti della propria trattazione, e si sofferma su tradizionali questioni riguardanti il contesto, in cui il romanzo nasce e si sviluppa, e il suo pubblico.

La rivalutazione odierna della retorica antica intesa come arte della comunicazione, e quasi scienza totalizzante, e il riconoscimento del discorso come unità complessa sono correlati, come noto, con una rinnovata e approfondita analisi della Rhetorica di Aristotele. Opportunamente quindi Schmid-Dümmler richiama il passo in cui Aristotele afferma che il discorso nella sua interezza consiste in un processo o evento in cui sono necessariamente coinvolti colui che parla, ciò di cui si parla, colui a cui si parla (Rh. 1358a 37-b 2): sia chi parla sia chi ascolta hanno un ruolo attivo, nel senso che orientano l'impostazione e le caratteristiche del discorso stesso, collocandosi al suo interno. Subito dopo, in relazione al destinatario (akroatēs) del discorso, Aristotele introduce un'altra ripartizione che tiene conto delle variabili temporali e spaziali, e delle diverse finalità, cui si riconnettono i tre genē individuati (Rh. 1358b 2-8). Tra essi, Schmid-Dümmler dà giusto rilievo al γένος ἐπιδεικτικόν, che considera di particolare rilevanza per la propria indagine, pur non trascurando l'apporto del γένος συμβουλευτικόν (pp. 21-27). Nell'argomentazione, Schmid-Dümmler richiama una ulteriore distinzione: «Die drei Gattungen werden auch in praktische Beredsamkeit (γένος πρακτικόν: γένος συμβουλευτικόν und δικανικόν) und Kunstberedsamkeit (γένος ἐπιδεικτικόν) unterschieden» (p. 16). Dal punto di vista più propriamente letterario, il genere epidittico è certamente il più interessante: il carattere fittizio proprio dell'epideixis fece sì che questo genere potesse essere inteso come comprendente tutti i possibili discorsi, e la finzione letteraria stessa.

L'aspetto che Schmid-Dümmler privilegia nel suo lavoro, cioè il rapporto tra Eros e peithō, conduce a un confronto molto ravvicinato e costante tra il romanzo di Achille Tazio e il Phaedrus di Platone, di cui si ricorda prima di tutto la famosa definizione della rhētorikē technē come ψυχαγωγία τις διὰ λόγων (Phdr. 261a). Anche la scelta di un bosco, di un locus amoenus, come luogo del racconto rinvia inequivocabilmente a Platone (Phdr. 229a-230c). L'atmosfera socratico-platonica della messa in scena del romanzo, peraltro già oggetto di attenzione da parte degli studiosi, è spesso richiamata, anche nelle sezioni successive, con osservazioni sul collegamento tra i nomi dati ai singoli personaggi e il ruolo a essi assegnato nello svolgimento della vicenda (pp. 192-196; 222-254), e con il confronto esteso ad altre opere di Platone. Schmid-Dümmler arriva così a questa conclusione: «Achilleus Tatios' Roman bzw. Kleitophon's Darstellung seines Liebeswerbens wird so in den ersten beiden Büchern als eine Art 'pseudo-platonische Schule' dargestellt, in welcher der noch uneingeweihte Kleitophon über mehrere Stufen der richtigen Rhetorik unter Anleitung der platonischen Figuren Kleinias und Satyros sein eigenes Ziel der Seelenbefiederung zu erreichen sucht» (p. 254).

La seconda parte del lavoro (pp. 49-215) affronta la complessa struttura narrativa e la cornice spaziale del romanzo attraverso una particolareggiata analisi, che si avvale delle acquisizioni della moderna narratologia, e degli studi sull'ekphrasis.

Il doppio ruolo di Clitofonte come io narrante (Ich-Erzähler B) e come protagonista, e la presenza di un altro io narrante anonimo (Ich-Erzähler A) costituiscono una sfida impegnativa per l'analisi del complesso intreccio; per questo Schmid- Dümmler ricorre a frequenti schemi che rendono immediatamente percepibile la successione e la concatenazione degli avvenimenti, e permettono di capire la funzione dei discorsi e delle descrizioni in determinati punti della narrazione. Il significato delle quattro ekphraseis iniziali (Sidone reale e Sidone letteraria, la graphē di Europa, il bosco) è oggetto di particolare attenzione, in quanto esse costruiscono l'ambientazione del racconto e fungono probabilmente da guida che introduce alla comprensione del seguito della storia (pp. 123-135; 160-215).

Alla realtà geografica come luogo dell'incontro e del racconto, ai viaggi dei personaggi lontano dalla loro patria, viene dato ripetutamente il giusto rilievo: i diversi paesi costituiscono la cornice sia reale sia ideale delle singole vicende, dell'intreccio narrativo e del percorso che fanno i personaggi dall'inizio alla fine del romanzo, percorso ricco di situazioni parallele o antitetiche, che la localizzazione geografica contribuisce a creare o a sottolineare. In particolare, Schmid-Dümmler si sofferma sulla scelta, da parte di Achille Tazio, della città di Sidone (Σιδών è la prima parola del romanzo), come terra di approdo dell'autore. Questa città viene interpretata come luogo di transizione tra il mondo greco e il mondo orientale, contribuendo così a rendere più articolato il gioco tra identità e alterità, che è un tema cruciale del romanzo. Anche l'Egitto, scelto come meta della fuga dei protagonisti, rappresenta una tappa significativa nello svolgimento della storia. Nella sezione successiva, il termine e il concetto di ἀποδημία (da considerarsi quasi come sinonimo di avventura), e il motivo del ritorno in patria sono oggetto di interessanti osservazioni riguardanti le similarità e le differenze tra i cinque romanzi greci d'amore (pp. 317-320).

La terza parte (pp. 217-389) entra nel vivo delle questioni delineate nelle prime due sezioni. La Rhetorik im Dienst der Liebe e la Rhetorik im Dienst des Erzählens (über die Liebe) si riuniscono nella figura di Clitofonte (il cui nome dà risalto alle sue abilità linguistiche, p. 24 – l'Autrice presta un'attenzione costante al significato dei nomi dei vari personaggi; di fatto l'assegnare un nome e l'antonomasia rientrano nelle tecniche di caratterizzazione), ma la distribuzione delle due finalità in due sezioni diverse, anche se funzionale alla presentazione e alla discussione dei molteplici piani narrativi e mimetico-dialogici, alle esigenze del racconto in varie situazioni, rischia di essere percepita come artificiosa polarità tra la narrazione e il suo autore (chi narra, come narra, il fine che si propone, il destinatario del suo discorso), tra il Clitofonte narrante e il Clitofonte personaggio. Questa distinzione in realtà non è netta, come d'altra parte Schmid-Dümmler osserva, sottolineando il continuo gioco e l'intersecarsi dei ruoli, e proponendo il confronto con le strategie narrative adottate negli altri romanzi d'amore pervenuti (pp. 86-159).

Così, l'argomentazione basata sull'eikos (5.27.1-4), con cui Clitofonte espone una serie di motivazioni (da cui chi legge o chi ascolta può trarre quella che gli sembra più convincente), che spiegano il suo comportamento non conforme alla convenzione della reciproca fedeltà della coppia principale, appare significativa sia per 'giustificare' la doppia storia d'amore (Clitofonte e Leucippe; Clitofonte e Melite), sia per delineare il carattere del protagonista, più articolato nel senso del pathos, delle esperienze umane e intellettuali, rispetto agli altri eroi del romanzo. Schmid-Dümmler ricorda a questo proposito diverse interpretazioni degli studiosi, che hanno parlato, di volta in volta, di Parodie, di Subversion, di Humor, di Ironie, di Realismus, o di Mysterieninitiation (pp. 375, 385-389).

Un dettagliato esame viene dedicato all'agone retorico tra Melite e Clitofonte, nel quinto libro, la cui forza ed efficacia argomentativa è richiamata già all'inizio (p. 11 s.); proprio nel quinto libro emerge infatti la figura di Eros come maestro e artefice di discorsi (5.27.1 διδάσκει γὰρ ὁ Ἔρως καὶ λόγους, 27.4 αὐτουργὸς γὰρ ὁ Ἔρως καὶ αὐτοσχέδιος σοφιστής). L'arte della parola, il suo potere psicagogico (ampiamente riconosciuto nella letteratura greca), insieme con la tempestività degli interventi, diventano strumento di persuasione e di attrazione: su questo assunto si basa l'intera analisi.

Il sottotitolo del volume (Rhetorik im Dienst der Verführung) fa riferimento alla funzione della retorica, che si sceglie di indagare esaminando il romanzo di Achille Tazio. Questo punto di vista potrebbe apparire in un primo momento limitato o troppo generico; in realtà, nel corso della trattazione emergono altre e molteplici finalità e funzioni della retorica. Schmid-Dümmler conduce infatti un'analisi intertestuale costante e necessaria a causa del debito che il romanzo ha nei confronti della precedente tradizione letteraria, e che si rivela in modo preminente nei discorsi diretti, nei dialoghi e nei monologhi, negli agoni delle parole.1

L'analisi delle strategie di seduzione e di corteggiamento, che i protagonisti adottano principalmente facendo ricorso all'arte della parola, sostenuta anche da altri espedienti (scelta del momento più opportuno; del luogo e dell'ambientazione più adatti; delle azioni e dei gesti più calcolati per orientare la reazione del destinatario del discorso, nel senso voluto), conduce spesso l'Autrice a soffermarsi su notazioni riguardanti i caratteri, le loro eventuali metamorfosi o sviluppi, all'interno di una tipologia sostanzialmente uniforme e legata al genere.

Molti studi recenti sulle tecniche di caratterizzazione dei personaggi testimoniano l'odierno interesse per questo tema,2 e nello stesso tempo la consapevolezza di quanto il 'carattere' sia di per sé una nozione sfuggente e complessa, e di quanto sia difficile definire e comprendere un carattere 'costruito', letterario. Come noto, l'ēthopoiia è un concetto e una pratica ricorrente nella letteratura greca: in senso generale, il termine indica la costruzione diretta e indiretta dell'ēthos dei personaggi attraverso vari espedienti e mezzi. Tra questi ci sono ovviamente, e forse principalmente, i discorsi, le cui funzioni sono tuttavia, come si è detto, molteplici e non isolabili l'una dall'altra; inoltre, il 'carattere' resta principalmente un 'agente'3 inserito in una storia, rispetto alla quale non è di norma preminente, né per l'autore né per il suo pubblico. I caratteri si distinguono in base a elementi e a motivazioni dipendenti strettamente dall'intreccio narrativo e dalle dinamiche della vicenda in cui prendono vita, più che da precise finalità mimetiche, rappresentative di un individuo a sé stante: di tutto ciò non si tiene sufficientemente conto nell'analisi condotta da Schmid-Dümmler, incentrata sulle singole 'intenzioni' dei personaggi.

Il volume si conclude con una Appendix, in cui si affrontano aspetti filologici ed etimologici (pp. 391-409), seguita dalla bibliografia e da un utile indice dei passi degli autori antichi, cui si fa riferimento nell'argomentazione.

Questo studio ricco e documentato ha il merito di tenere sempre presente il destinatario interno al testo e il destinatario esterno, lettore o ascoltatore, nell'analizzare la struttura del romanzo di Achille Tazio, nel suo insieme e nelle sue parti. La retorica non vi appare come un'artificiosa sovrastruttura fine a sé stessa, ma come strumento di costruzione del racconto, e di seduzione. La difficoltà di comprendere i romanzi greci in una unica definizione, dato il loro carattere composito, ha fatto sì che il termine 'retorica' sia stato associato spesso a essi, ma con connotazioni prevalentemente negative. Lo studio di Schmid-Dümmler può contribuire a cogliere una diversa e più dinamica funzione unificante della retorica, che non riguarda solo lo stile, ma l'arte del racconto e l'efficacia della comunicazione.

Table of Contents

1 Achilleus Tatios' Leukippe und Kleitophon: Rhetorik im Roman 11
1.1 Rhetorik im Dienst der Verführung 11
1.1.1 Erotische Rede: Erzählkunst und Liebeswerben 11
1.1.2 Rhetorik und Erzählkunst 13
1.1.3 Achilleus Tatios' Roman: eine epideiktische Rede über Eros 21
1.2 Leukippe und Kleitophon in der Romantradition 28
1.2.1 Autor und Werk – oder: Was man nicht weiss 28
1.2.2 Literarisches und kulturelles Umfeld: Roman, Rhetorik und Zweite Sophistik 30
1.2.3 Plotstruktur und Publikum des griechischen Liebesromans 35
1.2.4 Achilleus Tatios' historische und moderne Rezipienten 40
1.3 Überblick über die Handlung 43

2 Rhetorik im Dienst des Erzählens: die Inszenierung des Romans 49
2.1 Die Rahmenhandlung 49
2.2 Erzähler und Rezipienten in Leukippe und Kleitophon 51
2.2.1 Der anonyme Ich-Erzähler A 51
2.2.2 Der Ich-Erzähler B / Kleitophon 61
2.2.3 Das Zusammenspiel der Erzählebenen: Übersicht 77
2.3 Erzählstrategien in den fünf griechischen Liebesromanen 86
2.3.1 Einleitende Überlegungen 86
2.3.2 Chariton, Heliodor und Xenophon 90
2.3.3 Das Ich-Erzähler-Setting bei Longos und Achilleus Tatios 117
2.3.4 Gegenüberstellung der Erzählstrategien in den fünf Liebesromanen 135
2.4 Die Ekphraseis der Rahmenhandlung und deren Rezipientenlenkung 160
2.4.1 Das Mädchen auf dem Stier (Ekphrasis 2) 161
2.4.2 Der Hain als Ort des Erzählens (Ekphrasis 3) 181
2.4.3 Sidon als Ort der Begegnung und des Erzählens (Ekphraseis 1a+b) 196

3 Rhetorik im Dienst der Liebe: das Liebeswerben von Kleitophon und Melite 217
3.1 Doppeltes Liebeswerben 217
3.2 Liebeswerben in Tyros: Kleitophon und Leukippe 218
3.2.1 Kleitophons Auftritt 218
3.2.2 Leukippes Auftritt 225
3.2.3 Kleitophons Werben um Leukippe 237
3.3 Aufbau eines zweiten Liebesromans in Ägypten? 255
3.3.1 Ende und Anfang 255
3.3.2 Wiedervereinigung der beiden tyrischen Berater 262
3.3.3 Tyros und Alexandria: gleiches Skript, andere Rollenverteilung 268
3.4 Liebeswerben in Alexandria und Ephesos: Melite und Kleitophon 272
3.4.1 Melites Auftritt 272
3.4.2 Eine verkehrte Hochzeit 291
3.4.3 Melites erfolgreiche Rhetorik 317
3.5 Kleitophon, Melite und Leukippe als Protagonisten 375

Appendix: Die Titelei von Achilleus Tatios' Roman 391
1 Die Überlieferung 391
2 Auswertung: ein Ansatz für die ursprüngliche Titelei 396
2.1 Titel 396
2.2 Autorangaben 398
2.3 Τάτιος vs. Στάτιος – die Situation in der Überlieferung 401
2.4 Τάτιος vs. Στάτιος – Verbreitung im griechisch-römischen Raum 403
3 Etymologische Überlegungen: tat-Lallnamen 406

Bibliographie 411
Index 443


Notes:


1.   Rinvio qui brevemente ad alcuni miei saggi: Achille Tazio V 25-27. Analisi di un discorso diretto nel romanzo greco, «AION» (filol.-letter.) 9-10 (1987-1988) pp. 151-171. Discorsi diretti e dialoghi nel romanzo greco antico, «AFLM» 21 (1988) pp. 33-50. Le parole e il personaggio: monologhi nel romanzo greco, «GIF» 42, 1 (1990) pp. 45-85. Discorsi giudiziari e altro nel romanzo greco antico, « AFLM» 24 (1991) pp. 31-60.
2.   Alcuni studi riguardano in particolare la letteratura greca: tra essi, il ricco volume di Koen De Temmerman (Crafting Characters: Heroes and Heroines in the Ancient Greek Novel, Oxford 2014), non citato da Schmid-Dümmler nella bibliografia, rappresenta un contributo molto importante per l'indagine su questi aspetti, così come il recentissimo volume edito da Koen De Temmerman e da Evert van Emde Boas (Characterization in Ancient Greek Literature, Leiden/ Boston 2018).
3.   Vd. Arist. Po. 1449b 31, 36-38.

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Wednesday, January 30, 2019

2019.01.60

Suzanne M. Adema, Speech and Thought in Latin War Narratives: Words of Warriors. Amsterdam Studies in Classical Philology, 24. Leiden: Brill, 2017. Pp. viii, 416. ISBN 9789004347120. €120,00.

Reviewed by Ana Clara Sisul, Universidad Nacional del Sur / CONICET (anasisul@hotmail.com.ar)

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La obra de Adema estudia las dimensiones ideológicas de las narrativas bélicas del Bellum Gallicum de César y la Eneida de Virgilio, analizando las representaciones discursivas (orales y escritas) y mentales (específicamente: pensamientos) de los personajes, que expresan una actitud o una visión sobre la guerra.

El marco teórico del estudio de Adema combina herramientas de la lingüística y de la narratología, presentadas en el primer capítulo, introductorio, y desarrolladas a lo largo del segundo y tercero. Los aportes de la lingüística cognitiva también se destacan en secciones concretas, a las que nos referiremos oportunamente. Estos enfoques teóricos son aplicados al estudio minucioso de los libros primero y séptimo del Bellum Gallicum y undécimo y duodécimo de la Eneida (capítulos cuatro y cinco, respectivamente). En este sentido, el libro presenta una bipartición entre los tres capítulos iniciales, de corte teórico, y los dos finales, de aplicación. La autora logra integrar ambas partes, pues en los tres capítulos inaugurales provee numerosos ejemplos que facilitan la intelección de sus premisas, y en las instancias finales recupera algunos conceptos teóricos relevantes.

A continuación, exploraremos el contenido del libro.

En primer lugar, Adema describe lingüísticamente las características de los discursos y pensamientos delimitados como corpus. Con este objetivo, circunscribe dos parámetros organizativos: el medio (discurso, pensamiento o escritura) y la construcción sintáctica (discurso directo, indirecto, mencionado o indirecto libre), obteniendo así doce categorías de representación. Al desarrollarlas, Adema se enfoca en el modo de incrustación sintáctica, que ofrece aspectos de gran interés: por ejemplo, las marcas textuales que diferencian un tipo de discurso de otro o que permiten identificar la presencia de un discurso indirecto libre, forma de difícil discernimiento, sintácticamente indistinguible de las palabras del narrador.

A fin de explicitar estas categorías en profundidad, y considerando el método de trabajo de la autora, consagrada a facilitar ejemplos al lector, Adema extiende su corpus textual en este capítulo, incluyendo una obra que no recibe un análisis exhaustivo posterior: el Bellum Iugurthinum de Salustio. La salvedad se explica en la necesidad de cubrir la mayor cantidad posible de representaciones discursivas y mentales, como también de dar una idea general acerca de la frecuencia de sus apariciones. A su vez, esta decisión se justifica en la abundancia de representaciones de escritura presentes en Salustio, en contraposición con su escasez en César y su rotunda ausencia en Virgilio.

Luego de particularizar los puntos principales de esta docena de categorías, Adema esboza unas conclusiones preliminares en torno a las diferencias cuantitativas de sus empleos en las obras de los tres autores analizados, variación que, en lo sucesivo, no deja sin explicitar.

Adicionalmente, Adema dedica un significativo subapartado del segundo capítulo (2.3) a referir la particular voz dual de las formas de discurso no-directo, basada en la coexistencia de dos centros deícticos: el del narrador y el del personaje. Al hacerlo, posicionándose en el marco teórico de la lingüística cognitiva, la autora lista los elementos lingüísticos indicadores de estos centros focalizadores paralelos (morfemas, lexemas, sintagmas), clasificándolos en cuatro grupos: formas verbales conjugadas (en sus facetas de persona, tiempo y modo, donde se incluye una interesante propuesta de lectura de algunos casos no normativos de consecutio temporum), expresiones referenciales (temporales, espaciales y referidas a personas y objetos), elementos comunicativos o miméticos, y elementos organizadores del discurso. Los contenidos de este subapartado resultan de gran interés, incluso considerando la observación de la autora en relación con la futilidad de aclarar si un discurso no-directo se orienta al centro deíctico del narrador o del personaje. En contraposición, Adema asevera que el énfasis debería recaer en las elecciones particulares del narrador, demostrando que su enfoque se orienta hacia lo cualitativo.

El tercer capítulo del libro, de cariz narratológico, estudia los efectos de la inserción de representaciones discursivas y de pensamiento en la narrativa. En primera instancia, Adema destaca las variaciones rítmicas, pues la inclusión de discursos de diversa extensión favorece un ritmo acelerado o lento, que responde, la mayor parte de las veces, a intenciones representativas ideológicamente orientadas. En segundo lugar, se desplaza al orden de la narración (fenómenos de analepsis y prolepsis), manifestado cuando los personajes hablan o piensan en eventos pasados o futuros, que rompen la cronología del argumento. A continuación, Adema se traslada al espacio narrativo, donde delimita los tipos de escenas que favorecen la inserción de representaciones discursivas y/o de pensamientos. Luego, analiza el uso de discursos para caracterizar no solo a los personajes, sino incluso sus acciones y procesos psicológicos (y, en algunos casos, cómo estos se originan en determinadas palabras). Por último, se centra en el particular empleo de discursos de personajes secundarios como medio para presentar un segmento de la narrativa principal y en los efectos generados por esta superposición de narradores.

Las herramientas circunscriptas por Adema en estos dos capítulos contribuyen a una mejor comprensión de las representaciones discursivas y mentales delimitadas como corpus, pero también de las narrativas mayores en las que estas se insertan, en tanto clarifican algunos conceptos subyacentes relacionados con la guerra. Los dos capítulos siguientes, mucho más extensos, aplican estas bases teóricas al estudio de los textos seleccionados, que son abordados de manera ordenada y sistemática. Además, presentan apartados con conclusiones parciales y, a modo de apéndice, tablas con contenido cuantitativo. A continuación, mencionaremos los aspectos principales.

El trabajo sobre los dos libros del Bellum Gallicum seleccionados demuestra la existencia de una visión de la guerra como una actividad necesaria, capaz de ser controlada, anticipada, planeada y ejecutada a la perfección, al menos en lo que concierne a las facciones romanas y, en particular, a César. Esta representación se logra mediante la introducción de un narrador omnisciente y asertivo, que emplea con moderación el discurso directo para cimentar sus convicciones y recurre con mayor frecuencia al discurso indirecto para organizar el ritmo del relato. Adema sostiene que el narrador de la obra es tan eficiente como el protagonista: los discursos de César enfatizan su celeritas (por ejemplo, en el tratamiento dado a sus mandatos, cuyo cumplimiento nunca se explicita, por considerárselo evidente), su capacidad de estratega (en la anticipación de algunos sucesos) y su enfoque analítico de los problemas. Por otro lado, la representación de César en los discursos de personajes no romanos contiene alabanzas, pero también una visión alternativa de la guerra como un fenómeno con alto impacto en la vida de los afectados.

El caso de la Eneida es notoriamente diferente. Allí, Adema nota que las representaciones de la guerra se sitúan entre los ejes de la necesidad (en tanto la guerra es el medio que garantiza la futura fundación de la ciudad de Roma, representación que cuenta con no pocos usos del recurso de la prolepsis), del camino para alcanzar gloria (punto preponderantemente manifestado, dentro del corpus analizado, en los discursos directos de Camila y Turno) y del horror. Este último aspecto prevalece, de acuerdo con la acertada lectura de la autora, quien nota que la mayoría de los discursos y pensamientos plasmados en los dos cantos finales de la Eneida tienden a mostrar el elevado impacto de la guerra en las vidas de los personajes. En la narración virgiliana, estos devienen representantes de las víctimas generales de la empresa bélica: padres, madres, hijos, vencedores, vencidos, e inclusive dioses, afectados por las muertes de sus favoritos.

En las palabras finales del libro, Adema resume las divergencias entre los narradores del Bellum Gallicum y de la Eneida, señalando que el primero no busca transmitir una visión exhaustiva de los horrores de la guerra, presentándola como algo capaz de ser organizado. En cambio, Virgilio recurre a las representaciones discursivas y mentales para desnudar una realidad de manera mucho más descarnada.

En conclusión, Speech and thought in Latin war narratives constituye un libro bien articulado, basado en un metódicamente aplicado marco teórico y capaz de superar las limitaciones propias de un catálogo cuantitativo. Su principal aporte consiste en la capacidad de sustentar, desde el punto de vista de los estudios lingüísticos y narratológicos, lecturas previas en torno a las obras analizadas. En una proyección más amplia, resulta destacable la posibilidad de extrapolar su enfoque al análisis de otras narrativas similares, invitando a futuros lectores a iniciar un fructífero diálogo.

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2019.01.59

Barbara Weiden Boyd, Ovid's Homer. Authority, Repetition, and Reception. Oxford; New York: Oxford University Press, 2017. Pp. xvii, 301. ISBN 9780190680046. £55.00.

Reviewed by Domingo F. Sanz, Universidad de Huelva (domingo.f.sanz.edu@juntadeandalucia.es)

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El libro de Boyd, una de las mayores expertas en Ovidio, se suma a los ya numerosos trabajos dedicados a estudiar los modelos que inspiraron la obra de Ovidio (desde los elegíacos, pasando por Calímaco, Lucrecio, hasta llegar incluso a Hesíodo); en este caso dirige su atención a la influencia de Homero. Para ello, se propone dos objetivos: el primero es salvar el (hasta ahora) inevitable tamiz que la obra de Virgilio ejerció sobre la poesía ovidiana y continuar la labor, que numerosos estudiosos han abierto en las últimas décadas, de "disipar" la alargada sombra de Virgilio que "for so long shaded our reading of Ovid" (p. 4); el segundo, proponerse "to sketch at least the outlines of a broader framework for Ovid's reception of the Homeric poems" (p. 5). Para ello pone el foco en determinados pasajes, poemas y personajes de la obra ovidiana, en los que considera que Homero influye de forma más inmediata que Virgilio. El libro está dividido en dos secciones dedicadas a dos amplios tópicos (la primera se centra en la relaciones paternofiliales; la segunda en el papel de la mujer), que se imbrican con tres temas o conceptos de la relación poética entre Homero y Ovidio (autoridad, repetición y recepción), anunciados en el subtítulo del libro. Lo novedoso es que Boyd abandona el análisis parcial o episódico y busca una perspectiva más amplia.

En el capítulo introductorio, la propia autora define dichos conceptos y anuncia que los referidos a la autoridad y la repetición protagonizarán las dos partes en las que ella divide su trabajo, mientras el tema de la recepción aparecerá recurrentemente a lo largo del libro y será utilizado por la autora "to describe the perspective that Ovid brings to his reading of Homer, and the ways in which that perspective contributes to the transformation that the Homeric poems undergo in Ovid's appropiation of themes, episodes, and diction" (p. 10). De este modo podremos comprender no solo la inevitable relación textual, sino también su inagotable poder metafórico, un proceso activo que Ovidio pone en marcha a lo largo de su carrera poética.

La primera sección del libro, dedicada al tema de la autoridad y al tópico de las relaciones paternofiliales, consta de 6 capítulos. Boyd establece en primer lugar una idea-fuerza: Catulo, Tibulo o Propercio se limitan a reflejar en su poesía ecos homéricos, meros ejemplos episódicos de "generic confrontation" (p. 17), mientras que la poesía de Ovidio, como la de Virgilio, cuya educación bebe de Livio Andrónico, Ennio y Homero, fructifica "in the sophisticated and subtle transformation of Homeric ideas into Latin poetry" (p. 23). A continuación, Boyd comienza a estudiar cómo Homero inspiró la poesía de Ovidio, llegando a considerarse un "segundo yo" de Homero y a posicionarse como heredero y sucesor de este, "the logical result of an inevitable intertextuality and the carefully crafted product of highly self-aware metatextuality" (p. 33). Para ello Boyd presenta pasajes elegíacos (Am. 1.9.33-40; Fast. 4.417-436; Tr. 2.371-380)1 que, superando el tradicional análisis que explora los símiles o el léxico homérico en los pasajes ovidianos, demuestran, en su opinión, la apropiación y transformación que Ovidio hace a su antojo del corpus homérico. En el primer pasaje mencionado, por ejemplo, Boyd no se limita a enumerar las referencias a los héroes o dioses homéricos y sus respectivas parejas femeninas, sino que le sirve para ilustrarnos sobre la forma en la que Ovidio explota determinados hechos y personajes, con el propósito de conferirles una pátina erótica. Asimismo, hay otros lugares que resaltan el profundo conocimiento que Ovidio tenía de Homero y de cómo trataba en su obra la figura del héroe homérico; en el capítulo 2, por ejemplo, la autora se centra en cómo el narrador de Am. 1.7 explota los sutiles matices del poderosísimo Diomedes en un pasaje secundario de la Ilíada (4.223-421), convirtiéndolo en un personaje contenido y respetuoso ante la autoridad, así como un paradigma de la (di)similitud generacional.

Probablemente, la mayor aportación de Boyd es hacernos ver la continua y poderosa presencia en la poesía ovidiana del "tropo de la paternidad", que busca legitimar su poética transformadora: el "ilimitado alcance" de la visión poética de Homero permite a Ovidio alcanzar sus propias y ambiciosas metas. De este modo, Ovidio pretende emular la excelencia paterna y mejorarla, manteniendo a su vez la tradición, y lo hace sin perder su personalidad y reafirmando su independencia. Para argumentarlo, Boyd dedica el capítulo 3 a estudiar las reinterpretaciones ovidianas de pasajes homéricos que aluden a las relaciones paternofiliales, incluso de forma tangencial, como, por ejemplo, un pasaje secundario en Ilíada 23, la disputa de Meleagro narrada por Fénix, en Metamorfosis 8, que, aunque la autora reconoce que no posee un excesivo color homérico, no obstante presenta elementos como el "tropo de las muchas bocas" (Met., 533-535) que le sirven para sugerir ("I suggest") que hay una explícita evocación que señala su amplia dependencia de la épica homérica (p. 96). Esta dependencia es algo forzada, en mi opinión, desde el momento en que dicho tropo está muy extendido en la poesía latina. En el capítulo 4, Boyd indaga en el uso y variación del paradigma homérico. Para ello, primero desvía el foco de atención de la intertextualidad homérica y se centra en cómo el poeta explota el tema de la sucesión en su poesía (p. 108), para finalmente volver a aquélla. Por ejemplo, en la historia de Dédalo e Ícaro (Met. 8.183-259), Boyd menciona la ya estudiada analogía poética sobre las fatales consecuencias de desobedecer a los padres, en la que Homero representa el papel de padre y Ovidio el de hijo, pero donde el poeta está dispuesto a jugar en el límite entre la seguridad de la autoridad tradicional homérica y el riesgo de la innovación. Sin embargo, Boyd no insiste tanto en ello, como incide en un pequeño pero fundamental detalle para confirmar su tesis sobre la intertextualidad Homero-Ovidio: la consecuencia etiológica del fatal destino de Ícaro, que da nombre al mar en el que se precipita, (mar nombrado así ya en la Ilíada,) es lo que permite a Ovidio reposicionarse frente a Homero al situar su narración (y su autoridad poética) en un tiempo previo a los poemas homéricos. Como vemos, Boyd despliega una brillante técnica argumentativa, aunque, a veces, adolece de falta de solidez, y lo hace para apuntalar una doctrina ya asentada: la originalidad de la poesía ovidiana se debe a su virtuosismo en la variación de temas y técnicas heredadas. Por ello, me parece más interesante su breve análisis sobre cómo Ovidio juega magistralmente con los géneros poéticos en el díptico elegíaco de Heroidas 3 (p. 104): por momentos, el hexámetro recoge connotaciones épicas, mientras el pentámetro le da al pasaje una pátina elegíaca. No sé si lo hace intencionadamente o no, pero Boyd rompe, en mi opinión, con otra idea tradicional: que en el uso del hexámetro es donde Ovidio muestra su máxima habilidad.2

Nuestra autora dedica el capítulo 5 a comentar la presencia de la metáfora poética de la paternidad (y de la juventud rebelde), que identifica a Ovidio como padre de sus poemas del exilio y a estos como hijos y hermanos entre sí, y sobre cómo el poeta juega con la identificación de su obra con figuras épicas (Tersites, por ejemplo, en Pont. 3.9) o con la imagen poema- cuerpo del poeta y el tópico del poema-hijo del poeta. En el capítulo 6, Boyd, siguiendo la línea especulativa de Ingleheart,3 desarrolla la idea de que, al igual que la tradición escultórica y epigramática le dio a los dos grandes poemas homéricos una dimensión femenina, haciéndolos hijas de Homero, el propio Ovidio quiso hacer lo mismo con su poesía del exilio, identificándola con la misteriosa Perila, de Tr. 3.7, una "scripta puella", como la célebre Corina, pero tomando el papel de hija.

Los tres últimos capítulos componen la segunda sección del libro, dedicada principalmente al tema de la repetición centrado ahora en el tópico de la figura femenina. Para Boyd la repetición de elementos poéticos homéricos por parte de Ovidio son la expresión y el deseo cumplido "to embody a distinctly Homeric poetics in his work", verdadero legado dejado por su padre poético. Según la autora, este deseo "entails not only an appropiation of language, style, and subject matter but also the suggestion that Ovid is a devoted reader and editor", con un íntimo aprecio y conocimiento del texto homérico (pp. 9-10). Su argumentación se basa en demostrar cómo Ovidio se apropia y explota muy productivamente, gracias a la "maleabilidad" del mito griego, los personajes femeninos que encarnan complejas y ricas personalidades en episodios centrales de la Odisea (Penélope, Calipso y Circe). En Tr. 1.7 y especialmente en Ep. 1, Ovidio desafía y transforma la narrativa homérica, al convertir a Penélope en una verdadera dama elegíaca, que se queja amargamente del amado ausente. Sin embargo, en mi opinión, la figura de Calipso en Ars 2.123-142 no le sirve a Boyd como ejemplo para desarrollar su argumentario, pues en este pasaje la propia autora centra más bien su atención no en la ninfa, sino en Ulises, al que otorga el papel de un rapsoda que representaría el deseo ovidiano de desafiar el control que Homero ejerce sobre el corpus épico (2.128): ille referre aliter saepe solebat idem. Igualmente, la autora cree hallar en la Circe de Rem. 263-288 el más claro ejemplo de afirmación del control sobre la narrativa y la autoridad poética de Ovidio en la tradición homérica, donde la "erotodidáctica" ovidiana transforma sustancialmente a este personaje clave y completamente desarrollado en la épica homérica dentro de una trama que no lo es en absoluto; pero, como la propia Boyd reconoce, el abandono de Circe "corresponds in many ways to that of Dido by Aeneas […] In fact, almost every detail of Circe's speech in this episode […] recapitulates the central themes of Dido's speeches" en Eneida 4 (p. 210). Por tanto, en este caso, Boyd no tiene más remedio que aludir al tamiz virgiliano que ha querido evitar a los largo de su trabajo.

Boyd cierra el libro (capítulos 8 y 9) insistiendo en la faceta más rupturista de Ovidio. Basándose en el pasaje del triángulo amoroso Ares-Afrodita-Hefesto (Od. 8.266-366), la autora analiza las técnicas de repetición y variación con las que Ovidio transforma dicho affaire en un mimo sobre adulterios, o cómo en Ars Amatoria 2 el tratamiento, calificado de "striking, even daring, aberration" (p. 245), de la traviesa pareja subvierte siglos de tradición, contraponiéndolo al casto tratamiento del propio Virgilio sobre el poder seductor de Venus como protectora de su hijo y, por ende, del pueblo romano. Como aportación novedosa, Boyd concluye que esto pudo ser una razón fundamental para su caída en desgracia, como tampoco debió ayudar la manera en que presentó a Venus y Marte en los Fasti.

Como conclusión, podemos afirmar que, en un gran número de ejemplos, Boyd consigue, con una técnica argumentativa brillante, demostrar la enorme presencia e influencia de Homero en la poesía de Ovidio. Sin embargo, a veces se echa de menos la mención de otros posibles modelos que probablemente influyeron en el poeta sulmonés, como, por ejemplo, los discursos Ayax y Ulises de Antístenes cuando estudia el pasaje del Juicio de las armas en Met. 13.1-383 (pp. 65-67).4 Con todo, este trabajo constituye una admirable contribución al estudio de la poesía homérica y ovidiana, y, sin duda, abre el camino para futuros e interesantes trabajos.

Pocas son las erratas que he encontrado en este libro tan pulcramente editado: en la pág. 23, los pasajes de Propercio serían 2.34.66 y 1.9.11; en la página 104, habría que leer Her. 3.117-18. En la página 177, habría que especificar mejor la cita de la línea 21: 3.4.71-72.



Notes:


1.   En este caso, no considero del todo acertada la elección del tercer pasaje, pues creo que, más que a Homero, Ovidio tenía en mente un pasaje de su amigo Propercio (2.9.3-18) cuando caracteriza a Penélope (por ejemplo el verso 4: …tam multis femina digna procis, cf. Tr. 2.376: …multis una petita procis?).
2.   E. J. Kenney, en E. J. Kenney y W. v. Clausen (eds.), Historia de la literatura clásica II: Literatura latina (1989), 502.
3.   J. Ingleheart, "Ovid's Scripta Puella: Perilla as Poetic and Political Fiction in Tristia 3.7.", CQ 62 (2012), 227-241.
4.   A. Ruiz de Elvira, Mitología Clásica (1982), 429.

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2019.01.58

Suzanne Amigues, Théophraste. Les pierres. Collection des universités de France. Série Grecque, 539. Paris: Les Belles Lettres, 2018. Pp. xx, 105. ISBN 9782251006239. €37,00 (pb).

Reviewed by Sabino Perea Yébenes, Universidad Nacional de Educación a Distancia, Madrid (sperea@geo.uned.es)

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En la cultura europea realmente es Platón quien, en la plenitud de su genio, fue el primero que intentó profundizar en los orígenes de los minerales (Timeo 365-369); sin embargo, solo le desplegó una teoría general. No sabemos si, poco después, el Lapidario que algunos atribuyen a Aristóteles,1 estaría en la línea de las ideas Platón sobre las piedras. En todo caso la atribución aristotélica es apócrifa, pues, en efecto, en la relación que ofrece Diógenes Laercio (Vit. Phil. 5. 22-27) de las obras de Aristóteles, no encontramos un Περὶ λίθων,2 título que sí aparece en el elenco de las de Teofrasto. Esta obra, aunque inspirada en la idea de la ciencia aristotélica, es una investigación original ab initio. El autor se propuso se propuso realizar una obra magna dedicada a la física natural (Περὶ φυσικῶν), de la que formaban parte, al menos, tres pequeños tratados: Sobre las piedras (Περὶ λίθων), Sobre los vientos (Περὶ ἀνέμων) y Sobre el fuego (Περὶ πυρὸ); textos que se complementan con sus estudios, igualmente pioneros, sobre botánica, Περὶ φυτικῶν ἱστοριῶν y Περὶ φυτικῶν αἰτιῶν. El tratado sobre las piedras no es una excepción en su obra, sino un capítulo de su ambicioso plan "científico", pionero en su tiempo, que iluminó los albores de la ciencia griega en materias que hoy consideraríamos ciencias físicas y biológicas, para hablar con propiedad, que ya en época antigua tuvo algunos epígonos: el Περὶ λίθων de Teofrasto sirvió de inspiración para Estratón de Lámpsaco y Posidonio, cuyos Lapidarios desgraciadamente se han perdido.

La concepción de este precioso escrito de Teofrasto únicamente se entiende, en su contexto cultural e histórico, por dos circunstancias extraordinarias cercanas en el tiempo: el espíritu científico aristotélico y la presencia de macedonios y griegos en Oriente en la expedición de Alejandro.

La expedición oriental del macedonio, incluyendo la exploración de la India, abrió con toda seguridad la puerta a un mundo nuevo a los griegos: el de los cristales, las piedras duras semipreciosas y las rocas ornamentales. Y también la necesidad de estudiarlas, como hace Teofrasto en esta obra, escrita con toda probabilidad en 310, según Amigues (p. X).

Las culturas del Bronce Egeo (micénicos y minoicos) conocen ya piedras semipreciosas, que se utilizan ensartadas en joyas, o que se tallan dando forma a pequeños jarros rituales, o con las que se fabrican sellos.3 También se conocen las piedras ornamentales en el mundo griego arcaico,4 y luego en el clásico (siglos V-IV), perfeccionando el arte de la incisión artística en pequeñas piedras de anillo donde se graban retratos o figuras mitológicas.5 El problema es que no tenemos noticia, aparte de la citada referencia de Platón, Timeo, 365-369, de la procedencia de estas piedras. Pudieron llegar a Grecia por las relaciones de griegos con el Oriente mediterráneo (Fenicia),6 o bien por los contactos con los persas,7 o bien por el comercio con Egipto, donde había una tradición secular de uso de piedras en joyería, pequeñas esculturas y otras piezas de lujo.

Lo verdaderamente importante de la expedición de Alejandro a la India y a las regiones de Bactriana (aproximadamente el actual Afganistán e Irán) es el descubrimiento de las mayores minas de piedras preciosas de la Antigüedad, hasta que se descubrieron las del Sinaí y de la costa del Mar Rojo, explotadas sistemáticamente en época romana. De ello da testimonio Arriano en su obra Periplo del Ponto Euxino, 39, donde habla del comercio de la piedra turquesa y el lapislázuli. Se observa en la época helenística un verdadero aumento exponencial del uso de piedras preciosas en todo el mundo antiguo. Y creemos que este incremento de la circulación de piedras de lujo condujo a la necesidad de estudiarlas o sistematizarlas, a indicar dónde están las minas, o a explicar cuáles son sus propiedades, como hace Teofrasto. Es en este momento inmediatamente post-alejandrino, y no en otro, cuando, a la luz de las enseñanzas del Liceo con el maestro Aristóteles y luego con su epígono Teofrasto, nacen los Lapidarios como parte de las ciencias de la naturaleza; de ahí la extraordinaria importancia de la obra de Teofrasto, que es la primera sobre el tema en la cultura occidental.

Plinio el Viejo, en su Naturalis Historia, ya hace referencia a la importancia de la expedición de Alejandro para el conocimiento de las gemas, de las que está informado Teofrasto: sicut olim in metallis aurariis Lampsaci unam inuentam, quae propter pulchritudinem Alexandro regi missa sit, auctor est Theophrastus (Plin. N.H. 37. 193), pasaje citado y comentado por Amigues (p. 62). Hay que recordar también la noticia de Focio, Bibl., cod. 249, 441 b, donde dice que Aristóteles, deseoso de conocer los fenómenos naturales de Egipto, "le pidió a Alejandro de Macedonia que enviara a estas regiones observadores" para que comprobaran con sus propios ojos los fenómenos naturales en los que Aristóteles estaba interesado. Otro tanto pudo suceder con la expedición a Oriente. Es el propio Teofrasto quien en su obra Caracteres, 23.3, hace hablar a un hombre que presume de haber participado en una expedición con Alejandro, comentando lo bien que lo trataba el rey y de las muchas copas con incrustaciones de piedras preciosas que trajo (λιθοκόλλητα ποτήρια ἐκόμισε). Y añade que, en este tipo de trabajos, "los artesanos de Asia superaban con mucho a los europeos" (καὶ περὶ τῶν τεχνιτῶν τῶν ἐν τῇ Ἀσίᾳ, ὅτι βελτίους εἰσὶ τῶν ἐν τῇ Εὐρώπῃ, ἀμφισβητῆσαι). El fragmento es comentado por Amigues (pp. 64-65). Sobre la información que obtiene Teofrasto de la expedición oriental de Alejandro en relación con el conocimiento y estudio de las piedras, vid. Amigues, pp. 66-68, 70, 82, 86.

Pierre Chantraine,8 al comentar la voz relativa a la perla, que era considerada un mineral por Teofrasto (citado por Ateneo, Deipnosophistae, 93 a-d), indica que "les Grecs, qui ont connu la perle par l'expédition d'Alexandre, ont dû la rencontrer d'abord en Iran". Lo mismo ocurre con la piedra turquesa, conocida en Bactriana por los observadores que viajaban con Alejandro, como por ejemplo Chares de Mitylene (que escribió una Historia de Alejandro, hoy perdida) o Andosthenes de Thasos (que escribió un libro titulado Navegación a lo largo de las costas la India), según Ateneo (loc. cit.). Fueron estos "exploradores y observadores de primera mano" los que contaron a Teofrasto todas estas noticias sobre las piedras, como asegura el propio Ateneo, aunque Teofrasto no los cite.

El texto griego, y la versión francesa, en páginas enfrentadas, como es regla obligada en esta prestigiosa colección de textos clásicos, lo tenemos en las páginas dobles 1-22.

En la Introducción, que es el capítulo I, Teofrasto nos introduce en el mundo de los minerales hablando de su utilidad, de la génesis de los principales, según diversos autores, así como el uso práctico de más corrientes, como los carbones fósiles destinados a la combustión, y así como un repaso sumario a los orígenes de las principales minas conocidas en su época.

Esta particularidad de algunos minerales fósiles (la combustión) es desarrollada en los siguientes capítulos (§ 9-19). Y los siguientes (§ 20-22), a la piedra pómez.

En los capítulos §23-27 habla –con demasiada brevedad, para nuestro gusto– de las piedras semipreciosas, a veces, dice, de dimensiones extraordinarias y con propiedades físicas y empáticas no menos extraordinarias. En el mismo sentido habla en §28-29 de la "orina de lince" transformada en un cuerpo sólido, mineralizado, basándose en una opinión u obra de un tal Diocles. Entre las piedras destinadas o proclives para hacer con ellas sellos o gemas, Teofrasto cita (en § 30), el topacio, la antracita, la "uva verde" (sobre esta extraña piedra vid. el comentario en p. 61 nota 12), el cristal de roca, la amatista, todas ellas apreciadas por su transparencia, y la piedra sardónice, en sus distintas variedades. Completan estas ideas sobre las piedras ornamentales la mención de otras piedras que destacan por su color o su translucidez. Son descripciones de materiales, dureza o variedad de color, pero Teofrasto de ningún modo relaciona estas piedras semipreciosas con las divinidades, ni con los planetas, ni se refiere a su uso como amuletos, como hacen muchos Lapidarios posteriores bien conocidos.9 La obra de Teofrasto es la de un naturalista, de un observador de la física mineral, no es un mitólogo.

En § 33-38 Teofrasto hace un recorrido geográfico aludiendo a las piedras que se pueden encontrar en su propio país (Grecia) y, por contraposición "en lugares lejanos", y pone el ejemplo de África. Esa exploración le lleva a describir las perlas y otros materiales duros o sustancias sobre las que elucubra si son o no minerales, como el coral o el "marfil fósil". En § 39-47 habla de las piedras imantadas y de su uso.

El resto de la obra, § 48-60 habla de "los minerales blandos", es decir de los diversos tipos de tierras: el cyanos de donde se extrae el ocre, diversos sulfuros (cinabrio), incluyendo unas ideas sobre el mito del origen del mercurio, así como diversas tierras final o polvos que se usaban, por ejemplo en la pintura. Y concluye explicando en qué consiste el gypsum, su naturaleza, sus minas, su uso y su propiedad específica de "retener dentro el fuego", un fuego que puede salir bruscamente por accidente (Teofrasto cuenta el caso de un cargamento de ropa que ardió súbitamente al contactar con esta piedra).

Se trata, pues, de un discurso descriptivo y explicativo, aunque nunca demasiado extenso, sobre los principales minerales, piedras duras (preciosas o no), cristales, y piedras fósiles, carbones y tierras de los que los griegos de finales del siglo IV tenían información, por tenerlos examinados o en sus propios territorios, o tener noticias de ellos en tierras lejanas. Obviamente este opúsculo sobre las piedras tiene mucha menor extensión y entidad que la obra que Teofrasto dedicó a las plantas.

Si la traducción francesa es importante –aunque, como dijimos, no es la única de que dispone el lector actual en una lengua moderna– no menos relevante es el Comentario (pp. 25-101), extenso, como se ve por el abanico de páginas, de un texto apretado, impreso en letra demasiado pequeña, denso por la minuciosidad de las disquisiciones, preciso e incisivo hasta los mínimos detalles lexicográficos, donde se buscan paralelos en otros autores (principalmente al comparar los nombres de las piedras y su identificación), como ocurre a menudo con Plinio y los libros 36 y 37 de su Naturalis Historia que es, en cierto modo, un colofón enciclopédico, en el siglo I d.C., de lo que los antiguos sabían sobre las piedras y los minerales. Este extenso aparato crítico es un tesoro para quienes estudien, en la obra de Teofrasto, o de otro autor, las propiedades de las piedras mencionadas. Es de justicia reconocer a la autora el esfuerzo filológico realizado.

La editora ha manejado las principales ediciones anteriores, que recoge en pp. XIX-XX, y se aprecia cuánto debe al libro de Eichholz.10 Esta edición no debe ser olvidada, pues en muchos casos –apuntados por la propia Amigues en las notas críticas– hay discrepancias en la fijación de algunos términos (nombres de minerales, principalmente). Tanto Eichholz como Amigues ahora, han trabajado teniendo presentes los principales códices y las primeras ediciones críticas impresas (vid. p. XXI). Si cabe, la presente versión está más pulida –con notas críticas y culturales más extensas y prolijas, no limitándose a indicar las variantes léxicas de los distintos manuscritos–, pues no en vano han pasado más de 50 años desde la edición de Eichholz, y en ese intermedio han surgido bastantes estudios sobre la mineralogía antigua y en particular la obra de Teofrasto. La autora se apoya justamente en los léxicos y diccionarios etimológicos, pues los términos de la obra, los nombres de los minerales y de las piedras, o los detalles de sus características no corresponden al lenguaje griego común, sino que tiene un léxico específico, como lo tienen entonces y ahora las ciencias de la naturaleza.

No habría estado de más el haber insistido en que las obras de Teofrasto, incluido los trabajos menores, como el Περὶ λίθων, fueron en época moderna traducidos al latín. La autora ha descuidado un poco las citas bibliográficas de estas obras de los siglos XVI-XIX, mencionándolas de forma abreviada, cuando hubiera costado poco dar el detalle. A modo de ejemplo, la autora cita la obra de Daniel Heinsius (1580-1655), que en realidad se titula ΘΕΟΦΡΑΣΤΟΥ ΤΟΥ ΕΡΕΣΙΟΥ ἍΠΑΝΤΑ. Theophrasti eresii Graece & latine opera omnia Daniel Heinsius textum graecum locis infinitis partim ex ingenio partim e libris emendauit hiulca suppleuit, male concepta recensuit interpretationem passin interpolauit; cum indice locupletissimo. Este es un libro publicado en 1613 en Lyon (Ludguni Batauorum ex typographio Henrici ab Haestens impensis Iohannis Orlers) y no en Leiden como indica la autora en páginas XIX y XXI. E igualmente habría que mencionar a los traductores latinos del resultante De lapidibus, que en la obra mencionada de Hensius (el tratado sobre las piedras estás en páginas 391-401) corresponde a Daniele Furlano.

Al margen de estos pequeños detalles bibliográficos que lo hubieran mejorado, este es un libro absolutamente riguroso en su realización, recomendable en todos los sentidos y de un enorme interés sobre las clases de piedras y sus usos en el mundo griego, aun cuando, como dijimos, el autor, Teofrasto dedica muy pocos párrafos a las piedras semipreciosas u ornamentales, que es el campo donde, ya en época antigua, más se avanzó.



Notes:


1.   Por ejemplo, de Mély, F., Les lapidaires de l'Antiquité et du Moyen Age, Paris 1902, p. II.
2.   En el manuscrito árabe, suppl. 876 de la Bibliothèque Nationale de Paris, titulado Le livre des pierres d'Aristote de Luca ben Serapion, se indica precisamente su autoría aristotélica incierta, lo que se confirma por su contenido puramente alquímico. Por otro lado, en el Lapidario de Alfonso X el Sabio, que es un conjunto de cuatro libros distintos, se dice que el primero se encuentra atribuido al sabio árabe Abolays, que estudia las piedras y sus propiedades "según los grados de los signos del zodíaco" siguiendo la obra de Aristóteles. Difícilmente el filósofo habría escrito un tratado sobre piedras y astrología.
3.   Zwierlein-Diehl, E.: Antike Gemmen und ihr Nachleben, Walter de Gruyter, Berlin – New York, 2007, pp. 20-24.
4.   Zwierlein-Diehl, E., cit. pp. 35-43.
5.   Zwierlein-Diehl, E., cit. pp. 47-53.
6.   Zwierlein-Diehl, E., cit. pp. 45-46.
7.   Zwierlein-Diehl, E., cit. pp. 47-52. Los griegos tenían noticias «literarias» sobre las riquezas minerales de Persia y de la India a través de las obras de Ctesias de Cnido. Este, hecho prisionero en la guerra, fue llevado como cautivo a Persia, donde actuó como médico de Artajerjes, al que curó de las heridas recibidas en la batalla de Cunaxa en 401. Residió muchos años en Persia, y en 398-397 vuelve a su patria, donde escribió varias obras de geografía y de historia natural. En su obra Cosas de la India, que nos ha llegado fragmentada, habla en §6 de la gema pantarbas; en §11 de "las piedras preciosas que forman montañas, de las que se extrae el sardónice, el ónice y otras gemas"; y en §36 sobre el ámbar . Una versión española de Ctesias se puede leer en: Gil, J., La India y el Cathay. Textos de la Antigüedad Clásica y del Medievo occidental, Madrid, 1995, pp. 151-170.
8.   Chantraine, P., Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, París, 1980, 2ª edición 2009.
9.   Halleux, R. / Schamp, J., Les lapidaires grecs: lapidaires orphiques, kérygmes lapidaires d'Orphée, Socrate et Denys, lapidaire nautique, Damigéron-Evax, Paris 1985. Les Belles Lettres. Todos estos lapidarios son, en sentido y contenido, opuestos al de Teofrasto.
10.   Eichholz, D.E., Theophrastus. De lapidibus, Introduction, Text, Translation, Commentary, Oxford, Clarendon Press, 1965.

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Tuesday, January 29, 2019

2019.01.57

Fausto Giumetti, Per advocatum defenditur: Profili ricostruttivi dello status dell'avvocatura in Roma antica. Abbrivi. Nuova serie, 4. Napoli: Jovene Editore, 2017. Pp. xvii, 215. ISBN 9788824324878. €22.00 (pb).

Reviewed by Francesco Montone, Liceo Scientifico "G. Marconi" (francesco.montone@unina.it)

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[The Table of Contents is listed below.]

Il volume si inserisce all'interno della Collana Abbrivi. Nell'introduzione, dal titolo 'Prospettive di ricerca' (pp. XIII-XVII), lo studioso spiega che suo intento è fornire una ricostruzione dell'avvocatura a Roma focalizzando l'attenzione non sui giuristi o sulla figura dell'orator, come avviene nella linea di studi tradizionale, ma sugli advocati.1 La prima e la seconda parte del volume si occupano, attraverso l'analisi delle fonti, dell'orator e dell'advocatus, intesi come attori fattivi del diritto romano (dall'epoca arcaica a quella imperiale), alla luce del mutuo scambio che essi intrattengono con i giuristi. La terza sezione si occupa del problema della retribuzione forense.2

Nelle commedie di Plauto e Terenzio il termine advocatus è utilizzato con accezione semitecnica; gli advocati avrebbero un'imprecisata funzione assistenziale a favore di più categorie di soggetti, dagli amici ai patroni (ad esempio si veda Plaut. Cas. 563-569); Giumetti è contrario all'ipotesi del Fraenkel,3 secondo il quale in Plauto l'advocatus era un semplice testis; a suo parere, l'advocatus è chiamato ad affiancare la parte con funzioni eterogenee. Come emerge dal Poenulus (vv. 519-520; 531), gli advocati sono dipinti come semiloschi individui tuttofare che, con raggiri e inganni, vengono chiamati in soccorso dal patrono Agorastocle per ingannare l'avversario.

Anche in Terenzio l'utilizzo del termine advoco acquisisce una portata semantica afferente alla dimensione processuale; l'advocatus nelle commedie terenziane sembra assumere, però, caratteri identitari più strettamente giuridici rispetto alle commedie di Plauto. Attraverso l'analisi di passi dell'Eunuchus (vv. 335-338; 759-763), del Phormio (vv. 348-349; 407) e dell'Adelphoe (vv. 643-646; 675-678), Giumetti arriva alla conclusione che il termine advocatus in Terenzio si colloca appieno in contesti indiscutibilmente forensi; esso mantiene tuttavia un'oscillazione semantica che va dal significato di consigliere a quello di aiutante in giudizio esercente attività difficili da precisare, fino ad arrivare a quello di testimone.

Non mancano nella tarda repubblica esempi di donne capaci di svolgere in casi particolari un'attività oratoria non ritenuta, evidentemente, in se stessa contrastante con le caratteristiche del loro sesso.4 La preclusione fatta alle donne nei processi criminali è una particolarità distinta dal divieto, a loro imposto, di esercitare la funzione giudicante e l'avvocatura. Nella letteratura di età imperiale mancano notizie a sostegno di una generalizzata preclusione della donna ad agire di fronte ad una quaestio perpetua. Dalla lettura di D. 48.2.1 emerge chiaramente che la donna in casi circoscritti poteva esercitare l'accusa, e ciò in deroga alla norma di carattere generale prevista in D. 48.2.8.

Analizzando le occorrenze di advocatus, patronus ed orator nel corpus retorico di Cicerone,5 Giumetti arriva alla conclusione che, se il patronato giudiziale si caratterizzò per un sempre maggiore tecnicismo, emancipandosi dall'originario rapporto clientelare, le funzioni svolte dall'advocatus restarono per lungo tempo difficilmente definibili, poiché questi svolge a volte mansioni solo sensu lato riferibili al mondo del diritto. Nel Brutus (288-289) gli advocati sono intesi come consiglieri pronti a fornire agli oratori il necessario supporto tecnico al fine di scongiurare errori dettati dalla diffusa ignorantia iuris da parte di coloro che manipolavano la parola ma non possedevano una solida conoscenza del ius civile. Non c'è dubbio, però, che Cicerone si sentisse a pieno titolo orator o patronus e che non avrebbe gradito il declassamento al livello inferiore di advocatus, come testimonia il parco utilizzo del termine da parte dell'Arpinate.

Per una più matura rappresentazione della figura dell'advocatus, svincolata, almeno parzialmente, dalla dimensione del patrono, bisogna attendere l'età imperiale. Quest'ultima rimodellò la figura del difensore in giudizio, anche a causa del lento declino dell'oratoria giudiziaria. Lo scadimento dell'ars rhetorica era dovuto anche alla sua minore utilità per l'ascesa nel cursus honorum; l'esercizio dell'avvocatura, inoltre, cominciò ad essere esercitato dalle classi meno elevate. Il difensore in giudizio non viene più chiamato patronus ed orator, ma advocatus, causidicus; si utilizzano anche altre espressioni, alcune delle quali dispregiative (ad esempio i termini clamator e rabula, già utilizzati in Cic. de orat. 1.202, per indicare rispettivamente l'avvocato che grida come un pubblico banditore risultato molesto e chi declama senza avere l' ingenium oratorium, o latrator, che compare in Quint. inst. 12.9.12).

Quintiliano, con la pubblicazione dell'Institutio oratoria, pur proponendo Cicerone e il suo ideale di retore come modello, ridisegna i confini dell'istruzione retorica, intesa come processo di acculturamento. Giumetti, inoltre, analizza la differente accezione, anche se non sempre evidente, con cui il retore utilizza i termini orator ed advocatus. Secondo Quintiliano l'advocatus non può essere privo di un'imprescindibile moralità, ritenendo che la scissione tra probità morale e capacità sia ancora più impensabile nel caso dell'orator, che, scevro dei boni mores, non potrebbe essere neanche inteso come tale (inst. 12.1.23). L'advocatus, quindi, sarebbe un orator che si è allontanato dalle norme di comportamento elevato. In antitesi con le più nobili figure sussiste, infatti, nella realtà forense, la figura del causidicus. Questo termine, pur mantenendo la sua matrice etimologica, aveva acquisito una coloritura denigratoria nel I secolo d. C.

Giumetti analizza poi l'opera di Plinio il Giovane, che fu, come noto, anche un rinomato avvocato. Dall'epistolario emerge la tendenza pliniana a concepire l'esercizio dell'oratoria forense nel rispetto di un codice deontologico. Plinio, inoltre, si astenne dall'attività forense quando rivestì una carica pubblica, pur ritenendo l'advocatio un dovere quotidiano importante del civis, e patrocinò gratuitamente, laddove l'Arpinate, come altri oratori, non disdegnò quei generosi donativi che esprimevano gratitudine per il servizio reso (ad Att. 1.20.7).

Uno dei punti di forza del volume è di certo la terza parte, in cui l'autore compie un'analisi complessiva delle tappe fondamentali che portarono all'emersione e alla lenta accettazione dell'onorario forense.6 Se le artes illiberales potevano essere retribuite con una merces, l'avvocatura, in quanto ars liberalis, rimaneva priva di contropartita contrattualmente esigibile. L'oratore remunerato, quindi, subiva un discredito da tutta la collettività. Lo stesso Quintiliano giustificava la percezione di un compenso, a fronte del patrocinio prestato, esclusivamente in caso di indigenza del patronus. I vari passi discussi di Gellio (Noct. Att. 12.2-4) e Cicerone (ad Att. 1.20.7; Phil. 2.40) fanno, quindi, comprendere che, nonostante vigesse il rispetto formale del plebiscito Cincio, che impediva che gli avvocati venissero pagati, erano diffuse molteplici consuetudini idonee a remunerare l'esercizio dell'attività forense. Vari erano i modi per aggirare la lex Cincia: gli advocati potevano farsi dare una cautio, una concessione di denaro antecedente al processo, o ottenere un lascito testamentario, o ottenere dei prestiti che, per tacito accordo, non venivano poi rimborsati. Si comprende che la lex Cincia risultava imperfecta per il fatto che non esistevano azioni idonee da adottare in caso di sua violazione. L'onere della prova, inoltre, gravava sul patrocinato.

Augusto, tuttavia, istituì una specifica actio metus in caso di sua violazione. Il rimedio pretorio poteva essere invocato dal cliente che avesse corrisposto un compenso alle pur antigiuridiche richieste del legale, per effetto della situazione psicologica ingenerata dall'incombere del giudizio. Si può datare all'età giulio-claudia l'emersione del licitum honorarium, grazie a due senatus consulta, che si resero necessari per le continue liti che si generavano per la violazione pressoché impunita della lex Cincia. Dopo un'accesa discussione in senato, riportata da Tacito (ann. 11. 5-7), Claudio, infatti, fissò in diecimila sesterzi il limite massimo che ciascun patrocinatore in giudizio poteva ricevere dal proprio assistito a processo concluso a titolo di donativo; superata tale somma, sarebbe incorso nella violazione della lex Iulia repetundarum. Nel 54 d. C. Nerone fece emanare un senatus consultum che aveva di mira il divieto di corresponsione di denaro o di dona prima dell'attività processuale, colmando una probabile lacuna di previsione.

Nell'ultimo capitolo del saggio sono analizzati tutti i passi del Digesto dedicati all'honorarium degli avvocati. La remunerazione forense era divenuta, infatti, sotto la dinastia dei Severi, una controprestazione socialmente accettata, oggetto di rigida disciplina da parte del legislatore imperiale. Ciò si riflette nell'istituto del licitum honorarium, di cui si trova cenno in D. 50.13.1.10, dove è configurato come una tariffa esigibile legittimamente, purché richiesta nel rispetto del modus legislativamente prefissato. In D. 50.13.1.9 viene stabilito che, qualora fossero sorte delle liti per iniziativa dei clienti contro gli avvocati relativamente agli onorari da questi richiesti, veniva attribuita ai praeses provinciae la relativa cognitio.

In D. 50.13.1.10-11 la preoccupazione del giurista è quella di fornire all'organo giudicante dei parametri cui attenersi nella valutazione da effettuare in merito all'ammontare degli honoraria dovuti agli avvocati, qualora il cliente ne avesse eccepito la legittimità. Questi erano i canoni individuati nel fissare la retribuzione: l'entità della lite; il prestigio riconosciuto al difensore; la prassi vigente nel Foro dove si era radicata la causa, da valutare insieme a quella valevole per quel tipo di processo.7 Da D. 50.13.1.12 si viene a sapere che l'onorario forense era divenuto, nell'impero avanzato, non solo lecito ma altresì coercibile.8 Lo scopo del provvedimento era quello di scoraggiare forme di societas tra patrocinatore e patrocinato che potessero condizionare l'operato del primo nello svolgimento del processo. D. 2.14.53 è così interpretato da Giumetti (pp. 186-187): se è onesto per un avvocato anticipare le spese processuale al proprio assistito, ed è lecito il patto con cui si prevede che quest'ultimo le rimborsi con gli interessi, non è consentito il pactum con cui il professionista difenda il cliente con l'intesa che gli verrà corrisposta, alla conclusione della lite, la pars dimidia di quanto quest'ultimo avrà eventualmente conseguito. In D. 19.2.38.1, infine, si legge che gli advocati avevano il diritto di trattenere gli honoraria versati dal cliente qualora un giudizio già radicato non fosse giunto a conclusione per causa a loro non imputabile.

Il volume, che si segnala per la ricchezza di documentazione prodotta e la precisa analisi delle fonti, riesce nell'intento dichiarato dall'autore (p. xiii) di spostare l'oggetto d'indagine, che solitamente è rappresentato dall'apporto dei giuristi nell'edificazione dell'ordinamento giuridico romano, sugli advocati, il cui operato e le cui funzioni sono prese in esame lungo l'arco della storia di Roma; il volume, che offre un utile e complessivo quadro d'insieme sull'avvocatura a Roma, si correda di un Indice degli autori (pp. 195-201) e di un Indice delle fonti (pp. 203-215).

Tavola dei contenuti

Indice (ix-xi)
Prospettive della ricerca (pp. xiii-xvii)
Parte prima
Le origini della figura del difensore in giudizio nelle commedie di Plauto e di Terenzio (pp. 3-16)
L'attività di rappresentanza processuale in età repubblicana (pp. 17-35)
Advocatus, patronus ed orator nel corpus retorico ciceroniano (pp. 37-75)
Parte seconda
Agli albori della difesa tecnica: l'età imperiale (pp. 79-106)
Le Institutiones Oratoriae di Quintiliano (pp. 107-122)
L'epistolario di Plinio il Giovane (pp. 123-138)
Parte terza
Una laboriosa accettazione sociale: origini e alterne fortune dell'onorario forense (pp. 141-155)
I senatus consulta di Claudio e Nerone in tema di onorario forense (pp. 157-173)
Spigolature giustinianee: l'honorarium forense nella compilazione (pp. 175-193)
Indice degli autori (pp. 195-201)
Indice delle fonti (pp. 203-215)


Notes:


1.   L'autore fa giustamente riferimento, tra l'altro, a proposito dell'attività retorica dell'advocatus e delle sue strategie difensive, ad A. Bellandi Ansaloni, L'arte dell'avvocato, actor veritatis. Studi di retorica e deontologia forense, Bologna 2016, pp. 5 ss.; A. Palma, Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano, Torino 2016; U. Vincenti, Giustizia e metodo. Contro la mitologia giuridica, Volume 1. Nuova edizione, Torino 2005.
2.   Sul problema si veda il fondamentale A. Dimopoulou, La remuneration de l'assistence en justice. Ètude sur la relation avocat-plaideur à Rome, Athens 1999.
3.   E. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, trad. it. di F. Munari, Firenze 1960, pp. 152-153.
4.   Una di queste figure è Carfania (o Afrania, o Carfinia), cui si fa cenno in D.3.1.1.5 (si veda a proposito E. Cantarella, Afrania e il divieto di avvocatura per le donne, in R. Raffaelli (a c. di), Vicende femminili in Grecia e a Roma, Ancona 1995, pp. 527 ss.); Valerio Massimo elogia due donne che esercitarono l'avvocatura, Mesia Sentinate (8.3.1) e Ortensia, figlia di Ortensio Ortalo (8.3.3).
5.   Si vedano le analisi fornite da C.F. Kubitschek, Advocatus, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, I, Stuttgart 1894, pp. 436 ss.; E. De Ruggiero, Advocatus, in Dizionario epigrafico di antichità romane, Roma 1895, pp. 116 ss.; alla bibliografia citata dall'autore si possono aggiungere due studi molti utili dedicati alla figura di Cicerone avvocato: G. Broggini, Cicerone avvocato, in Jus 37 (1990), pp. 143-166; G. Sposito, Il luogo dell'oratore. Argomentazione topica e retorica forense in Cicerone, Napoli 2001.
6.   L'autore fa riferimento in particolare al già citato saggio di Dimopolou e a M. Pani, La remunerazione dell'oratoria giudiziaria nell'alto principato: una laboriosa accettazione sociale, in Id., Poteri e valori a Roma fra Augusto e Traiano, Bari 1992.
7.   L'autore concorda con l'analisi fornita da A. Dimopoulou, cit., p. 458
8.   Sul passo si veda anche P. Garbarino, Il lavoro intellettuale nel mondo romano, Index 28, 2000, pp. 520 ss.

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